sabato 17 novembre 2012

"L'uomo selvatico", di Massimo Centini

    Quella dell'Uomo Selvatico è una figura archetipica presente nel folclore popolare sin dal medioevo. Nella maggior parte dei casi si tratta di una sorta di buon selvaggio, un personaggio che non si colloca esattamente nella società ma ne sfiora i margini, insegnando ai contadini e ai pastori i segreti dell'allevamento e della realizzazione di prodotti alimentari, soprattutto caseari. E' una creatura che, come tutte le figure che sfuggono ai criteri precisi di ciò che è considerato socialmente accettabile (si tratti di streghe, pazzi, storpi, ritardati) ha sempre ricevuto un trattamento ambiguo: ai suoi tratti benevoli si sono quindi affiancate le caratteristiche del trickster o, nei peggiori dei casi, di un primitivo stupratore di donne e ladro di bambini.
   Quello che Centini fa nel suo saggio è raccogliere le caratteristiche dell'Uomo Selvatico dalla tradizione popolare, effettuando una disamina dei motivi per cui il mito del buon selvaggio, di una figura che riporti ad un'epoca precedente all'organizzazione sociale in cui il contatto con la natura si è affievolito, sia così preponderante nelle leggende dell'arco alpino (e non solo). Se le considerazioni tratte riguardo questo punto sono sicuramente valide, lascia un po' perplessi il divagare del resto dell'opera, che affianca all'Uomo Selvatico altri personaggi assimilabili, come il lupo mannaro o i giganti. Non che le riflessioni di Centini siano banali, intendiamoci, solo che il tirare in ballo i berserkir, la Caccia Selvaggia, la processione dei morti e mille altri topoi folclorici che hanno solo deboli connessioni con la figura che dà il titolo all'opera priva il saggio di un preciso punto focale, con la conseguenza che spesso e volentieri ci si chiede da dove si sia partiti e dove si voglia arrivare.
   Sinceramente evitabile, infine, l'ultimo capitolo sullo yeti e la bestia del Gevaudan.

domenica 30 settembre 2012

"Storia notturna: una decifrazione del sabba", di Carlo Ginzburg

   Storia notturna è un libro che è stato più volte criticato, tanto che Ginzburg si è visto piombare addosso non poche accuse di "Murrayismo" dai suoi colleghi accademici. Il motivo sta nel fatto che Ginzburg, nel tentare di decifrare il ritratto del sabba, vede negli studi della Murray (precisamente il famoso The Witch-Cult in Western Europe) un nocciolo di verità. In realtà, Ginzburg è ben lontano dall'essere un murrayano, visto che critica giustamente il metodo lavorativo di questa. Quello che invece adotta, e sviluppa in quest'opera, è l'idea di prendere sul serio le confessioni delle streghe trovando un filo comune su cui non si fossero ancora incrostati i luoghi comuni del sabba nati a causa delle pressioni degli inquisitori.
   Ecco che emerge pian piano, grazie al meticoloso lavoro di documentazione, un doppio filone: da una parte abbiamo i cortei notturni a cui streghe e stregoni affermano di recarsi in sogno, capeggiati dalla figura di una misteriosa divinità femminile chiamata con diversi nomi (Abundia, Richella, Oriente, ma soprattutto Erodiade); dall'altra, abbiamo le processioni dei morti, che si scoprono essere collocate in precisi momenti temporali appunto legati al culto - o al timore - dei defunti.
   La dea notturna - spesso a capo della Caccia Selvaggia o del "gioco", dalla quale le streghe apprendono i segreti delle erbe e a alla quale rendevano omaggio, generalmente sempre dopo essersi recate al luogo del sabba a livello di "anima", separate dal corpo e a cavallo di animali, o trasformate loro stesse in animali - era un'entità presente a livello paneuropeo e oltre, i cui strascichi si intravedono ancora oggi in figure come quella della Befana. La processione dei morti era invece percepita in maniera fisica, e Ginzburg fa notare che queste "anime" non fossero altro che persone in carne e ossa mascherate da animali o da demoni, visti dagli spettatori esterni come e veri e propri spiriti.
   Questo ritratto del sabba e dei cortei di defunti è in realtà solo il punto di partenza del libro. Ginzburg, per nulla intimidito dalla comparazione, svela numerose connessioni tra questi voli notturni: dietro ai viaggi al seguito delle fate in Scozia, o delle donne di fuori in Sicilia, o di Perchta in ambiente germanico, c'è sempre un'esperienza di tipo estatico. Allargando ancora il campo verso le steppe eurasiatiche, capiamo che dietro a queste esperienze si nascondono dei rimasugli di sciamanesimo derivanti da epoche molto, molto remote. Ne emerge un ritratto affascinante di un Europa legata da fili che si sono intrecciati nello spazio e nel tempo in maniera indefinibile ma palese, in cui la riverenza verso i morti e il viaggio onirico verso il sabba cela la stessa matrice iniziatica: i viaggi astrali come "piccola morte", morte necessaria per accedere a un'iniziazione le cui origini sono ormai perse nel tempo.
   Ecco allora chiarirsi anche la natura dei vari partecipanti alle battaglie notturne per la fertilità, combattute da benandanti, da lupi mannari, da mazzeri, da kresniki: sono tutti personaggi situati in una posizione liminale, che per un motivo o per l'altro (essere nati con la camicia, essere ai margini della società, essere nati in periodi particolari) stanno nel mezzo, tra il mondo dei viventi e quello dei morti.
   Ginzburg non cerca di razionalizzare gli elementi emersi dalle sue ricerche: quello che gli interessa è andare alla ricerca delle radici folkloriche e mitologiche delle testimonianze sul sabba. Le conclusioni su quello che accadesse davvero a questi personaggi che entravano in estasi, sul motivo per cui i resoconti dei loro viaggi sono tutti così simili, spettano solo al lettore.
   Un libro illuminante, che non ha paura di gettare luce su un aspetto controverso della stregoneria, e che forse è destinato a rimanere uno dei più misteriosi. Consigliato a tutti, soprattutto a chi voglia scardinare concetti ormai inculcati a forza dalla wicca: le streghe della prima età moderna non veneravano alcuna divinità pagana, né Diana, né Afrodite, né Ecate, né tantomeno Aradia - questi solo alcuni nomi che sono stati attribuiti alla dea notturna dagli inquisitori incapaci di ricondurla a una figura a loro nota; le streghe partecipavano al sabba, in un modo o nell'altro, ma non si trattava di incontri di piacere in cui si "venerava la natura". Sotto tutte queste testimonianze si intravede un fondo oscuro, fatto di sacrificio, di morte e rinascita, un sostrato che va indietro fino ai tempi in cui l'uomo combatteva ogni giorno una battaglia per la sopravvivenza.

giovedì 27 settembre 2012

"L'antica stregoneria italiana", di Dragon Rouge

   "Quest'opera rappresenta il sogno di una vita, ovvero il tentativo di ricostruire un ritratto più fedelmente possibile all'originale di quella che un tempo fu l'antica stregoneria italiana."
   Questa frase del retro di copertina riassume l'obiettivo titanico che Dragon Rouge si è posto con questo libro. Le intenzioni possono sembrare buone, anzi ottime, peccato che subito dopo segua una dichiarazione molto meno felice: "Per riuscirci ho preferito documentarmi il meno possibile presso fonti scritte ufficiali, andando invece a scavare nella memoria storica delle tradizioni orali segretamente tramandate fino ai nostri giorni dagli ultimi Pupilli della Luna, ma anche utilizzando particolari pratiche medianiche.
   Ora, per un'opera che si ripropone di ricostruire tutta la stregoneria italiana, intento che nemmeno i più grandi antropologi hanno ancora portato a termine, è lecito quantomeno esigere che un autore adduca uno straccio di documentazione. Non mi interessa a quali fonti orali il signor Rouge abbia attinto – fonti a cui non fa nemmeno un accenno e che, alla luce di quanto riportato nel libro, appaiono alquanto discutibili – né mi interessa quanto siano potenti le sue capacità medianiche. Per un libro del genere una bibliografia concreta è fondamentale, e il solo fatto che l’autore stesso non abbia alcun ritegno ad ammettere di non essersi documentato suona come una dichiarazione di ciarlataneria. 
   I contenuti, quel poco che c’è, sono molto scarni: togliendo la pubblicità alla fine del libro, la biografia e varie pagine introduttive, ci restano un’ottantina di pagine scarse. Un po' pochine per un lavoro così vasto nelle intenzioni. 
   Dopo una premessa sull'etimologia della parola "strega" e sul significato della stregoneria, inizia una sezione sull'organizzazione della popolazione stregonesca in cui Rouge sembra essere stato influenzato dagli scritti della Murray (o meglio, che sembra aver copiato dagli scritti della Murray): come lei parla di una vera e propria società segreta che chiama Bonam Societatem, distribuita sul territorio in feudi in ognuno dei quali esisteva una congrega capeggiata da un Magister o una Magistra. Tredici feudi, poi, formano un dominio retto da un Re o una Regina delle streghe. Tutto molto bello e suggestivo, peccato che nulla ci impedisce di ritenere che sia frutto della fantasia del signor Rouge, o di una sua enfatizzata interpretazione di dati reali. 
   Altrettanto sgomento suscitano le sezioni successive, dedicate alle assemblee e ai sabba. L’autore fornisce come festività le quattro date tradizionali di tregenda, ma il suo ritratto del sabba si avvicina molto di più alle descrizioni date dai manuali dell’Inquisizione che a ciò che dovevano essere in realtà: troviamo qui il Re delle Streghe in veste di Dio incarnato, vestito di pelli d’animale e una testa o maschera di caprone a coprirgli il volto, pronto a ricevere gli omaggi dei suoi discepoli. Seguivano le danze, i banchetti, gli eventuali battesimi e matrimoni e, per finire, l'immancabile orgia. Anche qui, la ragionevole reazione a quanto scritto è un grande punto interrogativo. 
   Seguono delle parti sul volo magico e sul modo di operare della strega che, tutto sommato, riportano notizie attendibili e sono forse l'unica parte accettabile dell’opera. Il tono però ritorna ai livelli precedenti con un capitolo in cui Rouge si sbizzarrisce a fornire un elogio quasi delirante del ruolo della strega nella società, arrivando persino a sostenere che "di fronte alla strega si inchinarono per numerose ere dotti, nobili e potenti di ogni sorta e rango per elemosinare i suoi ambiti servigi" e che "alla strega si rivolgevano i più umili dei contadini come i più grandi dei re, ed essa spesso era convocata nei loro palazzi e, quale membro importante e rispettato delle loro corti, sedeva nelle loro assemblee." Affermazioni che mi fanno prudere le mani nel loro svilire una figura complessa che in un certo modo è sempre stata ai margini della società, sospesa tra la paura che essa suscita e l'effettiva utilità del ruolo che svolge.
   Sono tutte affermazioni che lasciano il tempo che trovano: l'impressione è che Rouge abbia semplicemente attinto da fonti più o meno note imbastendoci attorno delle vesti assolutamente romanzate. Il risultato è privo di fondamenta nel migliore nei casi, e imbarazzante e dilettantesco nel peggiore. 
   Si tratta di un libro che diffonde il pressapochismo e la disinformazione. Assolutamente sconsigliato ai neofiti e a chi vuole semplicemente conoscere qualcosa sulla stregoneria dal punto di vista antropologico: risulta infatti dannoso per chi cerca delle basi, per chi vuole impostare una metodologia di ricerca, per chi è facilmente abbindolabile.

giovedì 30 agosto 2012

"La Dea Bianca", di Robert Graves

   Mi trovo un po' in imbarazzo a commentare un libro che, nel bene e nel male, ha fatto storia. Partiamo dal sottotitolo: "Una grammatica storica del mito poetico". Che significa? Graves sostiene fondamentalmente che tutta la poesia (o perlomeno la poesia di qualità), sia un atto d'amore verso l'archetipo della divinità femminile, o che sia da ella ispirata. Graves non si limita a considerarla un archetipo, ma pare trattarla come una vera e propria divinità, la Dea Bianca, adorata anticamente a livello europeo e medio-orientale prima che le invasioni indoeuropee e dei cosiddetti "popoli del mare" ne sovvertissero il culto in seguito all'importazione di una società patriarcale. La tesi di Graves afferma che questa Dea Bianca era adorata con diversi nomi, ma che conservava le caratteristiche di base innanzitutto di dea lunare, e in secondo luogo di dea triplice (o quintupla, a seconda dei punti di vista).
   Da queste premesse Graves inizia a dipanare una rete sterminata che collega tutte le mitologie del bacino del Mediterraneo e oltre, con connessioni tra di loro spiegate con minuziosa precisione. Se la passione dietro la redazione del libro è certamente genuina, salta subito all'occhio che Graves pare essersi fatto prendere dall'entusiasmo di un'ispirazione troppo grande per essere espressa razionalmente. E in effetti il libro è confuso, tortuoso, a tratti opprimente. Non lascia respiro, anche per via della cultura enciclopedica dell'autore che presupporrebbe non poche conoscenze in merito di storia, mitologia, etimologia e letteratura.
   Le informazioni e le deduzioni sono tante, impossibili da ricordare. A lettura terminata rimane un quadro generale dei punti principali della mastodontica tesi che Graves sostiene. I voli pindarici che l'autore compie per giustificare questa o quell'etimologia, questo o quel culto, per spiegare un certo mito e il suo retaggio in tempi successivi, lasciano letteralmente a bocca aperta, se non altro per l'estrema linearità con cui Graves giunge alle sue conclusioni. Ogni risposta trova una sua domanda precisa, scovata il più delle volte tramite corrispondenze etimologiche. Ma un'autore che pretende di avere tutte le risposte, quanto può essere considerato credibile? Fin dove è lecito dare fiducia alla risoluzione di misteri millenari risolti tramite il potere dell'"ispirazione poetica"?
   Non sono pochi i punti che mi hanno fatto storcere il naso. In primo luogo, se l'affermazione di un sistema patriarcale con conseguente ridimensionamento dei ruoli femminili è senz'altro plausibile, la riduzione di una moltitudine di dee, complesse e sfaccettate, a espressione di una singola dea è troppo riduttivo. Non intendo certo screditare la figura della Grande Madre, archetipo senza dubbio preponderante in moltissime culture arcaiche e non, ma è troppo prepotente la pretesa di Graves di ricondurre talmente tante dee alla sua Dea Bianca, dee che spesso hanno poco a vedere con le caratteristiche che egli stesso attribuisce a tale figura.
   Mi ha lasciato ugualmente perplesso la rivelazione dei misteri contenuti nell'alfabeto Beith-Luis-Nin, la cui rivelazione è un processo estremamente complesso che si spande secondo tutto il libro. Secondo Graves, la serie di lettere nascondeva un calendario che criptava un corpus di credenze e di cerimonie in onore della Dea Bianca. Anche in questo caso, le spiegazioni date da Graves per un argomento tanto complesso e astratto sono troppo certosine per poter essere accolte a braccia aperte.
   Sono moltissimi gli altri punti toccati (labirinti, minotauri, sillabe e lettere divine, serpenti, culti misterici), molti dei quali degni certamente di essere approfonditi se non altro per trarre delle conclusioni personali, ma prendere il testo come oro colato è certamente sbagliato. Lo sconsiglio vivamente ai neofiti della mitologia e del paganesimo storico, innanzitutto per il livello di conoscenze richiesto dal testo, e in secondo luogo per il rischio di fornire informazioni fuorvianti che dovrebbero essere vagliate da una ricerca personale.
   Eppure, eppure... sono lontano dal bocciarlo. Pur andando preso con le pinze, il testo è un'appassionata dichiarazione d'amore alla mitologia, alla cultura, a un mondo perduto che forse non è mai esistito nel modo in cui è dipinto dalle parole di Graves, ma che di certo risulta affascinante e nostalgico. La caduta dei sistemi matriarcali (questione che non tira necessariamente in ballo la Dea Bianca) e le considerazioni che l'autore fa  negli ultimi capitoli riguardo il futuro del culto del femminino lasciano l'amaro in bocca quando guardiamo alla situazione odierna. Forse è per questi motivi che il testo è caduto nelle grinfie della wicca e del neopaganesimo, diventandone la Bibbia indiscussa. Un destino che non si meritava.
   Insomma, difetti o meno, questo mastodontico saggio va preso per quello che è: letto con una sufficiente dose di conoscenze alle spalle in modo da evitare di esserne eccessivamente influenzati, è un testo che nonostante tutto dà ispirazione a ricercare, a conoscere, ad acculturarsi, a scavare per scoprire quali sono le nostre radici. Meglio leggerlo come un romanzo, e meravigliarsi di fronte alla sterminata erudizione di Graves, al senso di mistico terrore e di piccolezza dell'uomo che il offre il suo ritratto del sacro.

venerdì 13 luglio 2012

"I Mabinogion", a cura di Isabella Abbiati e Grazia Soldati

   I Mabinogion sono una raccolta di racconti gallesi provenienti da antichi manoscritti medievali. Furono tradotti completamente per la prima volta dal gallese da Lady Charlotte Guest durante la metà del diciannovesimo secolo e, oltre ai cosiddetti "quattro rami", di matrice chiaramente mitologica, Lady Guest inserì altri cinque racconti tradizionali del folclore gallese. Gli studiosi ritengono si tratti del più antico corpus letterario pervenutoci dal Galles: la loro importanza è immensa non solo perché sono le testimonianze più antiche sullo sviluppo del ciclo arturiano, ma perché forniscono dettagli sulla cultura, la mitologia e la lingua gallesi. Inoltre, nonostante i racconti ci siano pervenuti in una forma che è il prodotto di una tradizione medievale, certi dettagli possono andare indietro nel tempo probabilmente fino anche all'età del ferro.
   Un'opera tanto complessa e densa di simboli, frammenti di tradizioni, di episodi apparentemente assurdi per un lettore odierno, necessita per forza di cose di un solido apparato critico che purtroppo, nell'edizione che sto recensendo, manca. Sono presenti dei commenti per ognuno dei racconti, ma la qualità complessiva è molto scadente: pochissime parole vengono spese per analizzare la società gallese antica, il significato di certe figure come la "reggipiedi" nel ramo di Manawydan, o di certi dettagli come la natura dell'inganno ad Arianrhod nel dare un nome al suo stesso figlio.
   Le curatrici, Isabella Abbiati e Grazia Soldati, forniscono una lettura generale - a mio parere valida - che   vede le storie come metafore della conquista della legittima sovranità, ma infarciscono il tutto con continui e spesso forzati inserimenti di concetti neopagani derivanti dalla fantomatica "tradizione avaloniana" che loro stesse seguono (http://www.ynis-afallach-tuath.com/public/index.php). Praticamente ogni figura femminile dei racconti è superficialmente ridotta a una manifestazione dell'onnipresente triplice dea, ogni avventura dei protagonisti è vista come una discesa nell'inconscio o un viaggio spirituale di qualche tipo, e in un paio di occasioni vengono tirati in ballo concetti delle tradizioni asiatiche orientali che con l'argomento trattato non hanno nulla a che vedere. Peccato, un'occasione sprecata.
   Se cercate quindi un'edizione critica anche dal sapore vagamente accademico, questa non fa per voi. Purtroppo, a quanto ne so, è anche l'unica edizione commentata uscita in italiano.
Per chi masticasse l'inglese, il sito http://www.mabinogi.net offre il testo integrale dei quattro rami con un vasto apparato di note esplicative, anche a livello linguistico.

mercoledì 11 luglio 2012

"La stregoneria in Italia" di Andrea Romanazzi

   La stregoneria in Italia è uscito nel 2007 sotto Canali di Venexia. L'autore, Andrea Romanazzi, è un ingegnere che da più di vent'anni si interessa di tradizioni popolari e ha all'attivo diverse pubblicazioni. A quanto ne so la sua formazione nel campo dell'antropologia e degli studi folclorici è totalmente da autodidatta, ed è quindi ancor più sorprendente quanto sia professionale il suo lavoro di ricerca.
   A differenza di certi ciarlatani (sì Dragon Rouge, sì Adriano Spinelli, parlo con voi), Romanazzi si documenta, fa ricerche sul campo, condizioni che sono il minimo indispensabile per poter trattare un campo talmente vasto come quello della stregoneria italiana. Il risultato è un'opera che non approfondisce davvero a fondo nessun aspetto, anche perché penso sarebbe impossibile trattare fino in fondo certi argomenti all'interno di un libro, ma fa una sorprendente carrellata su  "scongiuri, amuleti e riti della tradizione", come recita il sottotitolo. Il lavoro di Romanazzi è un compendio delle più diffuse pratiche stregonesche che ancora oggi sopravvivono nel nostro paese, una guida davvero ottima come base di partenza per ulteriori approfondimenti.
   Il libro è diviso in tre parti: "La fascinazione magico popolare", "Magie e incanti d'amore", "Amuleti, talismani e antichi riti di protezione". I titoli sono già di per sé chiari, e le tre parti coprono gran parte delle pratiche racchiuse in queste grandi branchie della stregoneria tradizionale. Romanazzi si premura ovviamente di specificare la provenienza regionale di ciò che riporta, e fornisce degli ottimi commenti sul significato e il funzionamento delle pratiche descritte.
   Una delle qualità più importanti del libro è che Romanazzi non si lascia andare a derive neopaganeggianti, ma descrive ciò che descrive per quello che è, con un approccio il più vicino possibile a un compendio antropologico, tenendo sempre bene a mente il significato della parola "tradizione".
   Un'opera che alla fine lascia con una voglia insostenibile di sapere di più, scoprire di più. Non che il libro sia incompleto: c'è la sensazione di fondo che forse l'autore avrebbe potuto dire molto di più, ma in molti casi ho avuto l'impressione che ciò che è riportato sulla carta sia quanto di più Romanazzi avesse potuto scrivere senza violare il rispetto per le sue fonti, e per questo merita apprezzamento.
    In definitiva, un libro che consiglierei a chiunque sia alle prime armi. Non a chi voglia capire cosa sia la stregoneria, ma piuttosto a chi debba ancora sapere come funziona, di cosa si occupa, quali sono i suoi strumenti.

domenica 1 luglio 2012

Benvenuti

   Benvenuti su Osculum infame. Se siete giunti qui è sicuramente attraverso Qui giace un sogno, dal momento che il lancio ufficiale del blog che state leggendo non è ancora avvenuto. Come potete vedere è tutto ancora incompleto: restano da aggiungere diversi widget e alcune pagine, e non mi è ancora del tutto chiara la direzione che il blog stesso prenderà.
   Nell'attesa, continuate a seguire il blog gemello, sempre che i contenuti siano di vostro gradimento.