giovedì 2 maggio 2013

"Mitologia degli alberi", di Jacques Brosse

   Con questo Mitologia degli alberi Jacques Brosse indaga sulla centralità che l'albero ha avuto sin dagli albori dell'umanità per le culture europee e non. Giganti della natura, creature immortali agli occhi degli antichi, ma che tuttavia sembrano morire e risorgere di anno in anno con il passare delle stagioni, gli alberi hanno sempre rivestito un ruolo di fondamentale importanza nei culti precristiani, finendo poi per essere inclusi anche nei simbolismi del cristianesimo.
   Il saggio si presenta in sezioni che presentano ognuna un diverso archetipo incarnato dalla figura dell'albero. Tappa di partenza quasi obbligata è il topos dell'albero cosmico, esemplificato dall'Yggdrasill norreno e dall'autosacrificio per impiccagione attraverso il quale Odino ottiene la conoscenza delle rune (questo dell'impiccagione è un argomento su cui l'autore torna a più riprese, formulando interessanti teorie sul sacrificio umano e il suo significato).
   Si prosegue con l'albero come scala verso il cielo e la divinità: esemplare in questo caso è la betulla, albero su cui gli sciamani si arrampicavano durante i riti iniziatici. All'estasi in cui cadevano in queste situazioni viene attribuito l'uso di Amanita muscaria, fungo da sempre presente nel folklore europeo, quasi sempre in veste malefica.
   Ancora più interessante il capitolo dedicato alla quercia, albero del tuono, in cui viene sviscerata l'importanza nel mondo greco del santuario di Dodona. Si trattava di un luogo caratterizzato da una qualità rara: originariamente dedicato a una misteriosa divinità femminile che l'autore identifica con Dione, in seguito all'avvento del patriarcalismo acheo i due culti, maschile e femminile, hanno continuato a convivere con i relativi ordini sacerdotali. Correlata con la pioggia e i fenomeni celesti, la quercia era protagonista di diversi riti di controllo del tempo atmosferico. Collegato alla quercia, il vischio di Balder viene descritto come il seme del dio manifestato sull'albero: di origine celeste e nato dalla folgore, assumeva la valenza di fecondatore universale perché d'inverno sembra contenere tutta l'energia vitale dell'albero che lo ospita.
   Dioniso è protagonista della parte successiva, a mio avviso la più interessante. Viene in qualche modo accantonata l'immagine più tarda del dio come signore del vino e dell'ebbrezza, e si fa luce sulle sue origini più arcaiche in cui rappresentava una divinità - secondo Brosse - della linfa: un dio che muore e rinasce come gli alberi in inverno e in primavera, come la linfa che d'inverno si ritira nelle radici per poi riprendere a circolare vitale in primavera. Il delirio a cui il culto dionisiaco porta non è quindi propriamente assimilabile all'ebbrezza da vino, ma si tratta di qualcosa di ben più viscerale, un'esaltazione della vita attraverso la follia e il riconoscimento della morte.
   Figure di morte e rinascita sono affrontate nel capitolo quinto, in cui sono protagonisti Attis, Tammuz, Adone e Osiride. Rappresentati dal pino e dalle conifere in generale, sono divinità che incarnano l'immortalità, che offrono il loro sangue alla terra per renderla fertile: non è un caso che si tratti di figli/fratelli/amanti della figura della Grande Madre, la quale in seguito piange la loro morte e si adopera per far ottenere loro nuova vita. Rientra pienamente nell'argomento la figura dell'androgino, immortalata in Agdistis (una sorta di proto-Cibele) ed esempio di divinità "originaria" perfetta, che si genera da sé: la ierogamia, il matrimonio tra la dea e il dio, non è altro che una rappresentazione del ricongiungimento dei due poli.
   Il libro continua trattando di alberi connessi a figure mitologiche specifiche (come filira/tiglio, Ciparisso/cipresso, Pitis/pino nero) per poi spostarsi in epoca più moderna, in cui le divinità sono scomparse e il bosco non è più bosco sacro, ma dimora di creature soprannaturali potenzialmente pericolose come fate e streghe, ultimi rimasugli che incarnavano la paura che prendeva possesso degli estranei alla vista di un luogo sacro e incontaminato come lo erano le antiche selve vergini dell'Europa. In fate e streghe si ha un riflesso delle antiche divinità del destino, o degli spiriti della terra e delle acque, e ne è una testimonianza la bacchetta e il fuso di cui si fregiano. Simbolo del potere sulle forze della natura, la bacchetta è uno strumento prettamente maschile, fallico, e il suo potere, come quello della scopa, non derivava da altro che dall'albero da cui era ricavata.
   Palesemente influenzato da Frazer e da Graves, il saggio riesce a dire molto mantenendo l'enorme campo d'indagine del primo, ma evitando in gran parte i voli pindarici del secondo. A lettura ultimata, si rimane con una certa sensazione d'amarezza riguardo a tutto ciò che si è perso: i nostri boschi ormai non sono più delle entità misteriose e terrorizzanti, non incutono più reverenza e terrore; hanno smesso di fornire protezione e sostentamento grazie ai frutti della terra ma, al contrario, sono essi oggi ad avere bisogno di cura e protezione.

2 commenti:

  1. Ottima recensione. Sarà sicuramente un libro interessante, assolutamente da comprare!
    Ossequi.

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